martedì 13 maggio 2008

Ricostruire dopo un terremoto: Poggioreale


La cronaca di questi giorni ci descrive due tristi sciagure naturali che hanno colpito la popolazione mondiale: l’uragano che si è abbattuto sulla Birmania e il terremoto che ha colpito il sud-est della Cina. I disastri naturali, sono oggetti di studio in ambito architettonico sotto tre aspetti: a) la costruzione di edifici resistenti (principalmente alle azioni sismiche); b) la progettazione di edifici-rifugio temporanei; c) la ricostruzione post disastro. La ricostruzione è senza dubbio l’argomento più interessante quanto più complesso e delicato, interessa anche altre discipline (economia, politica, sociologia, urbanistica…), segna in maniera pressoché indelebile lo sviluppo futuro di un’area. Uno degli esempi emblematici è la ricostruzione dei paesi siciliani colpiti dal terremoto del 1968. Nell’opinione comune la vicenda del Belice è ritenuta per un verso uno scandalo nazionale, per un altro un totale fallimento; ormai sono passati più di trent’anni e molte cose sono avvenute nel Belice e a Poggioreale in particolare. Sia pure con enorme ritardo, con enormi scompensi, con soluzioni profondamente criticabili la ricostruzione delle case e delle città si è realizzata o si sta completando. La sensazione che si prova visitando questi luoghi è stata quella di una "occasione mancata " per l’effettivo rilancio sociale ed economico dell’intera area, dovuta, penso a miopia dei politici locali e a una voglia di "mettere in pratica" quanto teorizzato da parte di tutti coloro che hanno partecipato alla riedificazione.


Ci si chiede spesso perché una zona particolarmente isolata della Sicilia, come la Valle del Belice, abbia visto sorgere, soprattutto attorno il XVII secolo, un cospicuo numero di comuni. Le motivazioni sono essenzialmente di carattere politico-economico. Infatti con gli Aragonesi prima e con gli Spagnoli poi, si apre in Sicilia un'epoca di stabilità politica che darà nuovo impulso alla urbanizzazione delle campagne: il nobile proprietario terriero richiede al vicerè la licentia populandi dietro pagamento di una tassa, sceglie un sito adatto alla coltura del grano, quindi traccia e popola la nuova città, creata per dare alloggio ai futuri braccianti che si spostano dalle aree vicine stimolati anche da una franchigia dai debiti. Il barone, per sua parte, sfrutta i proventi del latifondo ed ottiene un voto in più in seno al Parlamento, per ogni 80 abitanti della nuova fondazione. La vecchia città si presenta con una configurazione a scacchiera regolare, tipica delle "città di fondazione" di quel periodo: cosi come Menfi, Santa Ninfa, Santa Margherita Belice, Montevago, e Vita, tutti centri essenzialmente agricoli, popolati dai Baroni-latifondisti tra il XVI e il XVII secolo attraverso lo "Jus populandi", Poggioreale nasce secondo un "modello urbano astratto": una scacchiera di isolati rettangolari, i cui elementi-base sono il palazzo baronale e la chiesa, che si fronteggiano. Nella fitta maglia si possono individuare delle gerarchie: due assi principali, ortogonali tra loro, si incontrano nella centrale Piazza Elimo. Considerata l'estrazione popolare dei primi abitanti, le abitazioni hanno dimensioni ridotte: quattro-cinque metri il passo sulla strada, otto metri circa la profondità, uno o due livelli fuori terra: la loro aggregazione avviene attraverso una schiera ribaltata intorno al muro di spina centrale, con muri laterali in comune; soluzione questa che in contesti agricoli è molto diffusa perché consente un notevole risparmio di materiali. Oggi si entra nelle rovine del paese proprio da un degli assi: Corso Umberto I; l’immagine che appare agli occhi del visitatore è diversa da quella degli altri centri distrutti dal terremoto del 68, i muri perimetrali degli edifici non sono crollati, invece all’interno cumuli di macerie coprono gli ambienti abitati. Ciononostante in alcuni frangenti sono visibili dalla strada testimonianze di un antico gusto per le decorazioni. Tutti i monumenti sono andati distrutti: il teatro comunale, il comune, la chiesa di S. Antonio, la Chiesa Madre.



È innegabile, malgrado le condizioni igienico sanitarie possano oggi fare inorridire i più, che le piccole dimensioni delle strade e il sistema delle tipologie edilizie adottate contribuivano a creare nei cittadini l’idea di comunità. A questo proposito scrive uno scrittore locale: "Malgrado la vita si svolgesse tra mille difficoltà economiche e pesasse immanentemente la fatica del contadino poggiorealese, c'era un grande sentimento di appartenenza alla Comunità, un grande spirito di unione, le feste popolari erano l'occasione per ritrovarsi in paese, nella piazza Elimo. La festa del Santo Patrono S. Antonio di Padova, culminava in una lunghissima processione lungo la via del paese, col santo che veniva portato su una pesante portantina dagli uomini del paese. Ma anche in altre occasioni non mancavano momenti di incontro, quando la terra non richiedeva lavoro, venivano organizzati spesso balli in casa, la gente veniva intrattenuta da un suonatore di fisarmonica e qualche chitarra e queste occasioni erano spesso il pretesto per dar vita a nuovi sodalizi. Vi era un sistema rigidamente patriarcale, al proprio genitore si dava del Vossia e il padre reggeva le sorti della famiglia, vi era una scarsa propensione del genitore a venire incontro alle legittime istanze della gioventù di allora, il Sig. C. Tusa mi raccontava che di tanto in tanto si concedeva il lusso di rincasare più tardi del solito, in questi casi il padre senza proferire parola aspettava pazientemente che posasse la testa sul cuscino per chiamarlo e andare in campagna."

La Regione e lo Stato, nei giorni immediatamente successivi al terremoto, assumono i primi provvedimenti per la ripresa civile ed economica delle zone colpite. Entro l’Aprile 1968 viene istituito ed attribuito all’ I.S.E.S. ( Istituto per lo Sviluppo dell’ Edilizia Sociale ) il compito di promuovere e progettare la ricostruzione edilizia con il trasferimento totale dei quattro comuni distrutti e il trasferimento parziale per gli altri. La condizione sociale ed economica del territorio squassato dal terremoto era sicuramente problematica. Chi ha dovuto formulare programmi ed avanzare prospettive di tipo economico – sociale si trovava di fronte una valle il cui isolamento dal resto della Sicilia e dalle più vicine località sulla costa era antico e tradizionale. Il ristagno economico di cui la valle era pervasa aveva come conseguenza sociale l’esodo della popolazione e l’emigrazione definitiva; ad esso concorrevano anche le difficoltà di accesso all’area, mai attraversata dai maggiori itinerari della Sicilia. Nella formulazione di programmi che dovevano presiedere allo sviluppo economico dell’area ricostruita, le scelte socio – economiche erano espressamente richieste. Come si vedrà, a fronte degli obiettivi si riscontra un’assoluta mancanza di strumenti per il loro perseguimento, oltre a macroscopici errori di previsione. Infatti le prospettive del futuro sviluppo dell’isola si ancorano a fumose immaginazioni. Vediamo di descrivere quali fossero le "idee progettuali" che avrebbero guidato i pianificatori e consentito lo sviluppo della zona: le comunicazioni ed i traffici marittimi e terrestri in direzione Est – Ovest ed in direzione Sud – Nord avrebbero dovuto convergere sull’isola, per incontrarsi proprio nel cuore della Valle del Belice, lasciando cadere benefici effetti e prodigiose ricchezze. Purtroppo gli estensori dei piani notavano che le aree di maggiore sviluppo si trovavano nel Catanese da una parte e sul versante opposto tra Mazara, Marsala e Trapani. Da queste considerazioni derivava la necessità di una forte infrastrutturazione delle aree interne che nei diversi piani, con qualche aggiunta o qualche sottrazione, si impostava su due assi in partenza da Palermo verso Mazara e verso Sciacca, e su di una dorsale che da Marsala, attraverso Corleone, doveva congiungersi con l’autostrada verso Catania. I punti fermi della organizzazione territoriale sono condensabili nelle seguenti enunciazioni:


  • il nuovo sistema stradale consente di connettere in direzione Nord – Sud l’interno della Sicilia Occidentale, togliendo il Belice dall’ isolamento;

  • anche il sistema agricolo potrà avvalersi del sistema stradale attraverso l’incremento degli scambi;

  • il territorio potrà quindi arricchirsi di attività industriali soprattutto inerenti alla trasformazione di prodotti agricoli;

  • sul sistema viario nasceranno attività di tipo direzionale che produrranno nuovi posti di lavoro, nel tempo breve si creeranno posti di lavoro nel settore dell’industria delle costruzioni;

  • l’industria delle costruzioni indurrà la nascita di un settore produttivo – artigianale (legno, ferro e commercio);

  • tutto ciò non può fare a meno di interventi esterni, quali un impianto elettrometallurgico che, con un investimento di 320 miliardi, avrebbe prodotto 4000 posti lavoro (sic!).

Nei documenti dei programmatori e soprattutto nei documenti più avveduti prodotti dall’I.S.E.S., più volte si avanzano avvertimenti e preoccupazioni circa un futuro che potrebbe muoversi in direzione non corrispondente alle indicazioni dei piani. Soprattutto si segnala la assoluta necessità di coinvolgere a fianco delle iniziative pubbliche, degli investimenti che lo Stato profonde nel Belice, le iniziative private, perché su queste si potrà poggiare in definitiva uno sviluppo economico del Belice alternativo rispetto ad altre zone depresse; se al meccanismo della ricostruzione non succederà un meccanismo economico in grado di assumerne l’eredità in termini di manodopera, ci si potrà trovare davanti ad un ulteriore deterioramento dell’economia locale con contraccolpi ben più complessi e difficili di quelli susseguenti ad una annata di cattivo raccolto. Queste ripetute cautele ed avvertimenti che i programmatori avanzavano quasi per scongiurare un rischio prevedibile, sembrano ora diventare profezia nei confronti di una realtà che sempre più assomiglia ai pericoli segnalati. Il business della ricostruzione era però già iniziato, interessi privati e di corporazione, miopia politica e malafede si mischiano in un circolo vizioso di cui, paradossalmente ci si rende conto immediatamente; ciononostante nessuno agisce di conseguenza. È interessante, a questo proposito il commento di Paola Dotto: "(…)All'indomani del terremoto le demolizioni, pagate pieno per vuoto risultavano senza dubbio più remunerative e più veloci delle opere di consolidamento o adeguamento sismico, anche nel caso di edifici monumentali o di centri storici di particolare pregio: quello che il sisma aveva risparmiato furono le ruspe ad abbattere, in fretta e non sempre per necessità. (…)La circostanza tragica del terremoto offre all'urbanistica ufficiale degli anni '70 l'occasione di cambiare l'assetto di una porzione del territorio in senso moderno e senza la presenza ingombrante di un "passato". L'urbanistica dei modelli vive nell'illusione totalizzante che la pianificazione, da sola, sia in grado di produrre nuovi modi di vita (e migliori condizioni socio-economiche per le popolazioni) cambiando i modi dell'abitare. Perdura l'idea che il terremoto - scardinato l'ordine esistente - lasci un assetto sociale e fisico completamente diverso da quello precedente le scosse: su questa convinzione prendono corpo le proposte di ridisegno territoriale dell'ISES, al fine di innescare lo sviluppo economico in aree fino ad allora marginali. (…)Oggi che terremoti più recenti hanno colpito altre parti del nostro Paese, la strada della salvaguardia e del restauro è già spianata, ma sarebbe semplicistico imputare le demolizioni del Belice a una carenza di cultura o di informazione… sarei tentata di parlare piuttosto di "falsa coscienza", se non conoscessi il pericolo delle facili generalizzazioni. Sussistono tuttavia dati di fatto inconfutabili: all'epoca del terremoto del Belice due Carte del Restauro erano già state scritte (Carta di Atene, 1931 e Carta di Venezia, 1964), di entrambe non si tenne conto e fu una precisa volontà politica a scegliere in tal senso. Il dato risulta particolarmente emblematico: a fronte delle ingenti risorse destinate alle infrastrutture e alla realizzazione di nuovi quartieri o ricostruzioni urbane, quasi nulla venne speso nella valorizzazione dei beni culturali degli antichi centri o di ciò che ne restava."


In una prima proposta redatta dall’I.S.E.S. veniva avanzata l’ipotesi di raggruppare gli abitanti di diversi comuni, Ghibellina, Santa Ninfa, Salaparuta e Poggioreale in un unico insediamento, in una conurbazione che da Santa Ninfa si estendeva fino alla località di Rampinzeri. L’ipotesi fu contrastata dalla popolazione e la conurbazione infine si ruppe in quattro insediamenti distinti: uno vicino al vecchio nucleo, Santa Ninfa; altri a breve distanza, Salaparuta e Poggioreale; l’ultimo, Gibellina, a quasi 20 chilometri dall’antico paese. Tra i due nuclei, quello vecchio e quello nuovo, sono collocate solitamente le baraccopoli; si è venuto così a creare una situazione per cui ogni comune tiene in questo periodo in vita ed abitate tre parti diverse, spesso a distanza di alcuni chilometri tra loro.Infatti nella ricostruzione non si è pensato di utilizzare in modo organico i tre insediamenti necessari nella fase transitoria e destinati a diventare due, o meglio uno solo nella fase definitiva. Il piano di trasferimento totale dell’abitato di Poggioreale è dimensionato per poco meno degli allora 3000 residenti e prevedeva la costruzione di 534 nuovi vani a totale carico dello Stato. L’area da espropriare, necessaria per la realizzazione complessiva del trasferimento, è di circa 107 mila mq., contro i 160 mila del vecchio centro storico ed è posta in vicinanza dell’asse Palermo – Sciacca (terminato circa trentenni dopo) su di un pendio prossimo al fondovalle in località Mandra di Mezzo. Tale località fu prescelta a seguito di perizia geologica, in quanto non fu possibile reperire aree geologicamente idonee in prossimità degli abitanti esistenti. Inoltre furono avanzate riserva di natura geologica anche sull’idoneità delle località stesse, nelle quali pertanto è stato necessario predisporre una serie di difese geologiche, di ricostruzione dell’ambiente e di rimboschimento, prima dell’attuazione del trasferimento.


La planimetria della città ha un disegno complesso, incentrato su tre grossi nuclei circolari, a cui sono tangenti gli assi delle attrezzature pubbliche. Gli spazi intermedi sono saldati da stecche residenziali ad andamento regolare e ripetitivo. Entrando in città attraverso una strada in sensibile pendenza, si giunge al primo nucleo residenziale nel cui centro sorge la nuova scuola media. Si individua, continuando a salire, la struttura dell’asse di servizio, con la scuola materna, l’asilo nido e un secondo complesso scolastico. Il centro civico, sociale e commerciale, parzialmente realizzato, identifica il centro della nuova città. Componenti essenziali del centro sono: il Municipio, forato da portici e terrazze; il centro sociale, con piazza coperta; il mercato; la piazza realizzata dall’architetto Paolo Portoghesi; il teatro comunale, ancora in fase di realizzazione e la Chiesa del santo Patrono, con il Sagrato, realizzata da Franco Purini e Laura Thermes. Si può da qui raggiungere la sommità dell’abitato sempre oltrepassando schiere di abitazioni destinate alla residenza. Una piazza circolare identifica la quota più alta; essa è attraversata da un viadotto pedonale in cemento a vista. Ai lati della piazza sorgono il centro amministrativo ed alcune residenze.


Dalla relazione di progetto si legge: "i componenti essenziali del centro sono il municipio, il centro sociale, e il mercato…Il centro sociale ha il suo fulcro in una piazza coperta destinata alla sosta, agli incontri alle assemblee. Il mercato non è altro che una grande terrazza coperta che da un lato si adagia sul terreno e dall’altro si affaccia sulla piazza del centro sociale. Il volume del municipio è disarticolato in modo da renderne chiaramente leggibili le destinazioni interne, ed è forato da portici e terrazze dai quali si accede agli uffici e che mettono in collegamento le zone pedonali con quelle veicolari. Infine allo scopo di vitalizzare il centro si è ritenuto opportuno introdurvi un certo numero di alloggi che qualora lo consenta il meccanismo di assegnazione, potranno essere attribuiti ai gestori dei negozi e a coloro che troveranno lavoro all’interno del Centro stesso". Ecco come si presentano oggi queste strutture: vuote, in disarmo, veri e propri spazi sociofughi! D’altra parte non sono mancati tentativi di "correzione": soprattutto negli anni Novanta, Poggioreale è stata oggetto di studio da parte di due noti architetti italiani: Paolo Portoghesi e Franco Purini. Portoghesi affronta il difficile tema della progettazione della nuova Piazza Elimo; scrive: "nasce con l’obbiettivo di riparare ai guasti di una città fondata dopo il terremoto, secondo modelli di composizione geometrica inattendibili, calata sul territorio senza coinvolgere né gli abitanti né i luoghi, mentre si poteva recuperare, almeno in parte, il centro abbandonato. Le prime ipotesi si sviluppano studiando gli elementi architettonici presenti nel vecchio centro, ma trattandosi di un intervento in una zona già edificata si decide di stabilire una connessione naturale con le preesistenze e di dura opposizione per quanto riguarda il linguaggio.(…) nella Sicilia moderna sono scomparsi i porticati, non per le condizioni climatiche, che li potrebbero rendere appetibili, ma per una esclusione ideologica perpetuata per secoli. Riproponendo il portico si cerca di ricreare un luogo adatto al passeggio, dove si affacciano alcune funzioni caratteristiche della piazza siciliana, che resta il luogo di identificazione della collettività". Purtroppo il risultato non è quello auspicato dal progettista: benché citata nelle più note riviste di architettura nazionali e non, la nuova piazza si presenta desolata, i porticati privi di un reale utilizzo, i locali destinati ad attività artigianali chiusi. Non ha avuto miglior sorte nemmeno Franco Purini che, con la collaborazione di Laura Thermes, ha realizzato la nuova chiesa dedicata al Santo Patrono S. Antonio da Padova e la stazione degli autobus.
La Valle del Belice sembra il risultato di una "stratificazione istantanea" di più idee di città che convivono, l'una accanto all'altra, l'una sull'altra, l'una nell'altra: apparendo e sottraendosi allo sguardo, l'una all'altra sconosciuta o irriconoscente.Negli spazi di relazione della città storica (tradizionalmente riconoscibili nel sistema strada/vicolo/cortile/piazza), "il limite del privato coincide sempre con il limite del pubblico e le regole dello spazio individuale fanno i conti con quelle dello spazio collettivo: strada e casa costituiscono così un binomio inscindibile". Negli spazi di relazione della città ricostruita vive una "interpretazione distorta" del modello della città giardino, che disconosce la cultura urbana e la tradizione abitativa della valle nell'intento di costruire, con le nuove case, nuovi modi di vivere, nuove condizioni di sviluppo, nuove opportunità. Così, all'indomani del sisma, la valle del Belice appare il "luogo mitico" dove tutto è accaduto, o potrebbe accadere, dove paesi arrampicati sulle montagne vengono portati a valle, dove le infrastrutture sorgono sul territorio ben prima delle case, dove l'arretratezza contiene il suo doppio: una ricchezza economica e uno sviluppo sociale possibile, a patto di lasciarsi alle spalle le abitazioni pericolanti e cambiare strada, vita, identità e cultura. "Il piano imposto dal centro, soprattutto astratto dal contesto in cui avrebbe dovuto realizzarsi, portatore di un disegno modernista rigido e in sé concluso come quello per il Belice, finì invece per creare due ricostruzioni parallele, quella sociale ed economica legata all'agricoltura e alla viticoltura, da una parte, quella delle grandi opere (talvolta incompiute) dall'altra". La dicotomia tra quanto è stato eseguito dei piani e le aspettative della comunità civile è probabilmente una delle cause della "crisi" delle città ricostruite, città oggi prive di ogni radicata identità urbana e culturale. Oggi che la ricostruzione è stata quasi totalmente completata, le città si stanno svuotando, poiché i giovani, non trovando più posti di lavoro nel mercato dell’edilizia, emigrano in altre regioni italiane, se non in altri Stati, svuotando così le città di un enorme potenziale di forza lavoro.

1 commento:

  1. Super interessante...ma perdonami non sono riuscita a leggerlo tutto...(che vuoi farci sono una ignorantona in materia ahahah)

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