giovedì 29 maggio 2008

Sensi di zanzara

Non sanno. Non capiscono. Dicono che sono pazzo, un mitomane, che non è vero, ma io vi dico che è la verità. Le attiro. Le zanzare intendo. Non so come sia possibile, ma è così. Dicono che è suggestione, mi spiegano che è dovuto all'odore della pelle, oppure al fatto che sono talmente bianco di carnagione da risultare fosforescente al buio! Non è così. Credetemi. Io le sento parlare. Le capisco. A casa mia divido la stanza con mio fratello, ebbene pungono me e non lui: solo me. Avete presente quella vecchia pubblicità con Naomi che appena vedeva un tappo di Martini esclamava "That's a party"? Ecco io le sento nel buio della stanza, arrivano in formazione, mi individuano, ed esclamano con quelle vocine "mmmm Nicola! That's a party!". Ve lo giuro, io le sento. Ho praticamente sviluppato gli omologhi dei sensi di ragno di Spiderman: i sensi di zanzara! Su come sia possibile, posso solo fare supposizioni. Vedete, mio padre, anni fa, aveva comprato uno di quei aggeggini che si attaccano alla presa della corrente e che con gli ultrasuoni dovrebbero cacciare gli insetti; posto per anni accanto il letto di mio fratello, non solo non ha contribuito minimamente a debellarli, ma ha fatto si che mio fratello sia diventato un rilevatore vivente di onde elettromagnetiche: riesce a capire se un elettrodomestico si accende anche in un altra stanza (dice che sente il ronzio...). Io, benchè tecnofilo convinto, sono per le soluzioni radicali: ma dicono che il napalm sia proibito, mi devo accontentare dell'insetticida. A casa mia dopo avere cosparso serramenti, vetri, lampade e schermi tv o pc con abbondante Raid, accendo il Baygon liquido per lasciare la finestra aperta (non dormo con il condizionatore acceso), salvo spegnerlo prima di addormentarmi profondamente. Lo stesso quando dormo nella mia casa palermitana. Ma loro lo hanno capito. Sono furbe. Le zanzare intendo. Si nascondono negli armadi e aspettano. Aspettano. Appena spengo mi attaccano. Quindi non posso spegnerlo, voi mi capite vero? Aggiungete pure che non tutti funzionano: il Vape è inutile, anzi le eccita è come dare del Ritalin; sono costretto a cambiare insetticida ogni sei mesi: loro si adattano e io con loro. Li ho sniffati tutti. Purtroppo non fanno più quei bei DDT di una volta, certo erano cangerogeni e simili al gas nervino, ma vuoi mettere: non davano scampo. I primi tempi mi risvegliavo leggermente intorpidito e con una strana bava verde che usciva dalla bocca, ma ora mi sono abituato. In compenso la lunga esposizione ai gas e alle onde elettromagnetiche ha potenziato il mio olfatto. Questo mi da la capacità di avverire la loro presenza in qualunque ambiente: lo leggo nell'aria, sono meglio di un radar! Avverto anche fughe di gas, perdite di radiazioni e, cosa utilissima, presenza di gnocca! L'unica controindicazione è che non posso passare davanti una di quelle profumerie tipo "Limoni", senza svenire; per la verità da qualche giorno riesco anche a muovere gli occhi indipendentemente l'uno dall'altro, come un camaleonte. Non bello da vedere, ma utilissimo. Resta da capire perchè proprio me: stamattina, parlando con un amico appassionato di entomologia, sono venuto a scoprire che non tutte le zanzare mordono, solo le femmine; dico io, non è perchè non ho successo con le donne, ma con tutte le creature di sesso femminile che esistono, giusto sulle zanzare dovevo fare colpo?

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venerdì 23 maggio 2008

Giovanni Falcone: 23 maggio 1992 - 23 maggio 2008

Oggi ricorre l'ennesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone, della Moglie e della scorta. Avevo pensato di inserire un video di quelli che si trovano su youtube, con il racconto di quelle ore o della figura di Falcone o qualche intervista allo stesso, ma non ho trovato niente che mi soddisfacesse. Ricordo il clima che si respirava in quei giorni in sicilia, lo sgomento, la disillusione che si tramutò in rabbia subito dopo l'omicidio Borsellino. Ricordo la commozione, la rabbia e la volontà di cambiare le cose. Sarò disilluso, ma non li ritrovo più oggi.

Senza voler togliere nulla a quel genere di coraggio che porta alcuni
uomini a morire, non dobbiamo dimenticare quegli atti di coraggio grazie ai
quali gli uomini vivono; il coraggio della vita quotidiana è spesso uno
spettacolo meno grandioso del coraggio di un atto definitivo, ma resta pur
sempre una miscela magnifica di trionfo e di tragedia… Un uomo fa il suo dovere
a dispetto delle conseguenze personali, nonostante gli ostacoli,i pericoli e le
pressioni, e questo è il fondamento della moralità umana. In qualsiasi sfera
dell’esistenza un uomo può essere costretto al coraggio, quali che siano i
sacrifici che affronta seguendo la proprio coscienza: la perdita dei suoi amici,
della sua posizione, delle sue fortune e persino la perdita della stima delle
persone che gli sono care. Ogni uomo deve decidere da sé stesso qualè la via
giusta da seguire; le storie che si raccontano sul coraggio degli altri ci
insegnano molte cose, possono offrirci una speranza, possono farci da modello,
ma non possono sostituire il nostro coraggio.

Per quello ogni uomo deve guardare nella propria anima. (John
Fiztgerald Kennedy
)

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sabato 17 maggio 2008

Statistiche

amico: "[...] ho tentato di diventare ateo, ma poi ho desistito"
io: "perchè?"
amico: "ho pensato che non avrei avuto più le feste comandate come vacanze"
io: "..."

amico: "[...] le statistiche non mentono però"
io: "credo poco nelle statistiche"
amico: "perchè?"
io: "se tu avessi la testa dentro un forno acceso e i piedi immersi in una bacinella ghiacciata, statisticamente avresti una temperatura media..."

io: "[...] e ho conosciuto una persona che ti conosce"
amica: "descrivimela"
io: "un metro e settanta col pizzetto..."
amica: "uomo o donna?"
io: "..."

amico: "ieri sera ho visto la tua coinquilina, ma non mi ha visto"
amica: "si me lo ha detto!"

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mercoledì 14 maggio 2008

Ne con Schifani ne con Travaglio

Esiste un tipo di giornalismo che si chiama di informazione. Consiste nel raccontare un fatto nella maniera più obiettiva possibile, ma soprattutto racconta una verità. Non è facile, ma un metodo c'è si usano delle fonti plurime, verificate, si trovano dei nessi, si guarda al contesto e anche allora, spesso non si è certi di dire tutta la verità, ma in buona fede si può dire di non avere mentito.

Esiste un tipo di giornalismo che si chiama di opinione. Consiste nel dare una propria visione di un fatto, nel proporre una idea, nel criticare un personaggio o una sua azione. Il giornalismo d'opinione richiede però la massima trasparenza con i lettori: chi scrive deve dichiarare apertamente che le sue sono opinioni e non verità, non deve mai spacciare le sue opinioni per informazione, deve schierarsi e non nascondere le proprie idee spacciandole per informazione.

Entrambi hanno pari dignità e importanza, ma in Italia purtroppo non sono sempre distinguibili. Partendo dal fatto che ogni autore ha una propria opnione, i giornali inglesi cercano di rimanere obbiettivi separando nettamente il fatto dal commento; durante le campagne elettorali, i giornali americani si schierano apertamente con questo o con quel candidato e lo dichiarano anche dgli editorialisti di punta. In Italia, quando alle penultime elezioni il Corriere si schierò apertamente con Prodi si parlò di scandalo, come se leggendo Repubblica, l'Unità o il Giornale non si capisse da che lato parteggiassero. Passando dal serio al faceto, un giornalismo che spesso manca di obiettività è quello sportivo; chi scrive si lascia trasportare dal proprio tifo e non riesce ad essere obiettivo, le polemiche di Calciopoli o anche le ultime sono un esempio.

Marco Travaglio, durante la trasmissione "Che tempo che fa" ha sostenuto che "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e in seguito alle proteste nate ha replicato: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Travaglio omette (involontariamente?) di dire che quel rapporto risale al al 1979 e che soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia. Basta questo però per persuadere un ascoltatore in buona fede che il presidente del Senato sia in odore di mafia o almeno amico di mafiosi. Questo dimostra come proporre fatti ad un pubblico inconsapevole, senza un contesto senza approfondirne o tacendone delle parti sia pericoloso. Quando afferma: "I giornalisti non scrivono che Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi, perché non lo vuole né la destra né la sinistra, ma io faccio il giornalista, devo raccontarlo" dimentica che quello che sta facendo, il suo approccio è tutto trane che giornalismo d'informazione. Vale la liberta di parola, ma non se ne deve abusare, nascondendosi dietro al fatto che le cose che lui va ripetendo sono scritte su dei libri: perchè le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002, riprese dall'Espresso, nel 2004 in "Voglia di mafia", tre anni dopo in "I complici". Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato è perchè lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun elemento di verità:quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.

Il presentare la vicenda come ha fatto Travaglio non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E' un subdolo giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente come tale al lettore/ascoltatore, ingannandolo. E la cosa più grave è che ormai sta diventando una costante (sia a destra come a sinistra): "L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). E' un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. E' un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale. " scrive D'Avanzo su Repubblica (mica il Giornale!).

D'altra parte si può essere in accordo con Schifani che non ha mai ritenuto necessario fare di sua sponte chiarezza su quel rapporto? E con Fazio che invita Travaglio ben sapendo il tenore che certe dichiarazioni possono avere (come del restofa Santoro invitando Sgarbi), per poi dissociarsene?

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martedì 13 maggio 2008

Ricostruire dopo un terremoto: Poggioreale


La cronaca di questi giorni ci descrive due tristi sciagure naturali che hanno colpito la popolazione mondiale: l’uragano che si è abbattuto sulla Birmania e il terremoto che ha colpito il sud-est della Cina. I disastri naturali, sono oggetti di studio in ambito architettonico sotto tre aspetti: a) la costruzione di edifici resistenti (principalmente alle azioni sismiche); b) la progettazione di edifici-rifugio temporanei; c) la ricostruzione post disastro. La ricostruzione è senza dubbio l’argomento più interessante quanto più complesso e delicato, interessa anche altre discipline (economia, politica, sociologia, urbanistica…), segna in maniera pressoché indelebile lo sviluppo futuro di un’area. Uno degli esempi emblematici è la ricostruzione dei paesi siciliani colpiti dal terremoto del 1968. Nell’opinione comune la vicenda del Belice è ritenuta per un verso uno scandalo nazionale, per un altro un totale fallimento; ormai sono passati più di trent’anni e molte cose sono avvenute nel Belice e a Poggioreale in particolare. Sia pure con enorme ritardo, con enormi scompensi, con soluzioni profondamente criticabili la ricostruzione delle case e delle città si è realizzata o si sta completando. La sensazione che si prova visitando questi luoghi è stata quella di una "occasione mancata " per l’effettivo rilancio sociale ed economico dell’intera area, dovuta, penso a miopia dei politici locali e a una voglia di "mettere in pratica" quanto teorizzato da parte di tutti coloro che hanno partecipato alla riedificazione.


Ci si chiede spesso perché una zona particolarmente isolata della Sicilia, come la Valle del Belice, abbia visto sorgere, soprattutto attorno il XVII secolo, un cospicuo numero di comuni. Le motivazioni sono essenzialmente di carattere politico-economico. Infatti con gli Aragonesi prima e con gli Spagnoli poi, si apre in Sicilia un'epoca di stabilità politica che darà nuovo impulso alla urbanizzazione delle campagne: il nobile proprietario terriero richiede al vicerè la licentia populandi dietro pagamento di una tassa, sceglie un sito adatto alla coltura del grano, quindi traccia e popola la nuova città, creata per dare alloggio ai futuri braccianti che si spostano dalle aree vicine stimolati anche da una franchigia dai debiti. Il barone, per sua parte, sfrutta i proventi del latifondo ed ottiene un voto in più in seno al Parlamento, per ogni 80 abitanti della nuova fondazione. La vecchia città si presenta con una configurazione a scacchiera regolare, tipica delle "città di fondazione" di quel periodo: cosi come Menfi, Santa Ninfa, Santa Margherita Belice, Montevago, e Vita, tutti centri essenzialmente agricoli, popolati dai Baroni-latifondisti tra il XVI e il XVII secolo attraverso lo "Jus populandi", Poggioreale nasce secondo un "modello urbano astratto": una scacchiera di isolati rettangolari, i cui elementi-base sono il palazzo baronale e la chiesa, che si fronteggiano. Nella fitta maglia si possono individuare delle gerarchie: due assi principali, ortogonali tra loro, si incontrano nella centrale Piazza Elimo. Considerata l'estrazione popolare dei primi abitanti, le abitazioni hanno dimensioni ridotte: quattro-cinque metri il passo sulla strada, otto metri circa la profondità, uno o due livelli fuori terra: la loro aggregazione avviene attraverso una schiera ribaltata intorno al muro di spina centrale, con muri laterali in comune; soluzione questa che in contesti agricoli è molto diffusa perché consente un notevole risparmio di materiali. Oggi si entra nelle rovine del paese proprio da un degli assi: Corso Umberto I; l’immagine che appare agli occhi del visitatore è diversa da quella degli altri centri distrutti dal terremoto del 68, i muri perimetrali degli edifici non sono crollati, invece all’interno cumuli di macerie coprono gli ambienti abitati. Ciononostante in alcuni frangenti sono visibili dalla strada testimonianze di un antico gusto per le decorazioni. Tutti i monumenti sono andati distrutti: il teatro comunale, il comune, la chiesa di S. Antonio, la Chiesa Madre.



È innegabile, malgrado le condizioni igienico sanitarie possano oggi fare inorridire i più, che le piccole dimensioni delle strade e il sistema delle tipologie edilizie adottate contribuivano a creare nei cittadini l’idea di comunità. A questo proposito scrive uno scrittore locale: "Malgrado la vita si svolgesse tra mille difficoltà economiche e pesasse immanentemente la fatica del contadino poggiorealese, c'era un grande sentimento di appartenenza alla Comunità, un grande spirito di unione, le feste popolari erano l'occasione per ritrovarsi in paese, nella piazza Elimo. La festa del Santo Patrono S. Antonio di Padova, culminava in una lunghissima processione lungo la via del paese, col santo che veniva portato su una pesante portantina dagli uomini del paese. Ma anche in altre occasioni non mancavano momenti di incontro, quando la terra non richiedeva lavoro, venivano organizzati spesso balli in casa, la gente veniva intrattenuta da un suonatore di fisarmonica e qualche chitarra e queste occasioni erano spesso il pretesto per dar vita a nuovi sodalizi. Vi era un sistema rigidamente patriarcale, al proprio genitore si dava del Vossia e il padre reggeva le sorti della famiglia, vi era una scarsa propensione del genitore a venire incontro alle legittime istanze della gioventù di allora, il Sig. C. Tusa mi raccontava che di tanto in tanto si concedeva il lusso di rincasare più tardi del solito, in questi casi il padre senza proferire parola aspettava pazientemente che posasse la testa sul cuscino per chiamarlo e andare in campagna."

La Regione e lo Stato, nei giorni immediatamente successivi al terremoto, assumono i primi provvedimenti per la ripresa civile ed economica delle zone colpite. Entro l’Aprile 1968 viene istituito ed attribuito all’ I.S.E.S. ( Istituto per lo Sviluppo dell’ Edilizia Sociale ) il compito di promuovere e progettare la ricostruzione edilizia con il trasferimento totale dei quattro comuni distrutti e il trasferimento parziale per gli altri. La condizione sociale ed economica del territorio squassato dal terremoto era sicuramente problematica. Chi ha dovuto formulare programmi ed avanzare prospettive di tipo economico – sociale si trovava di fronte una valle il cui isolamento dal resto della Sicilia e dalle più vicine località sulla costa era antico e tradizionale. Il ristagno economico di cui la valle era pervasa aveva come conseguenza sociale l’esodo della popolazione e l’emigrazione definitiva; ad esso concorrevano anche le difficoltà di accesso all’area, mai attraversata dai maggiori itinerari della Sicilia. Nella formulazione di programmi che dovevano presiedere allo sviluppo economico dell’area ricostruita, le scelte socio – economiche erano espressamente richieste. Come si vedrà, a fronte degli obiettivi si riscontra un’assoluta mancanza di strumenti per il loro perseguimento, oltre a macroscopici errori di previsione. Infatti le prospettive del futuro sviluppo dell’isola si ancorano a fumose immaginazioni. Vediamo di descrivere quali fossero le "idee progettuali" che avrebbero guidato i pianificatori e consentito lo sviluppo della zona: le comunicazioni ed i traffici marittimi e terrestri in direzione Est – Ovest ed in direzione Sud – Nord avrebbero dovuto convergere sull’isola, per incontrarsi proprio nel cuore della Valle del Belice, lasciando cadere benefici effetti e prodigiose ricchezze. Purtroppo gli estensori dei piani notavano che le aree di maggiore sviluppo si trovavano nel Catanese da una parte e sul versante opposto tra Mazara, Marsala e Trapani. Da queste considerazioni derivava la necessità di una forte infrastrutturazione delle aree interne che nei diversi piani, con qualche aggiunta o qualche sottrazione, si impostava su due assi in partenza da Palermo verso Mazara e verso Sciacca, e su di una dorsale che da Marsala, attraverso Corleone, doveva congiungersi con l’autostrada verso Catania. I punti fermi della organizzazione territoriale sono condensabili nelle seguenti enunciazioni:


  • il nuovo sistema stradale consente di connettere in direzione Nord – Sud l’interno della Sicilia Occidentale, togliendo il Belice dall’ isolamento;

  • anche il sistema agricolo potrà avvalersi del sistema stradale attraverso l’incremento degli scambi;

  • il territorio potrà quindi arricchirsi di attività industriali soprattutto inerenti alla trasformazione di prodotti agricoli;

  • sul sistema viario nasceranno attività di tipo direzionale che produrranno nuovi posti di lavoro, nel tempo breve si creeranno posti di lavoro nel settore dell’industria delle costruzioni;

  • l’industria delle costruzioni indurrà la nascita di un settore produttivo – artigianale (legno, ferro e commercio);

  • tutto ciò non può fare a meno di interventi esterni, quali un impianto elettrometallurgico che, con un investimento di 320 miliardi, avrebbe prodotto 4000 posti lavoro (sic!).

Nei documenti dei programmatori e soprattutto nei documenti più avveduti prodotti dall’I.S.E.S., più volte si avanzano avvertimenti e preoccupazioni circa un futuro che potrebbe muoversi in direzione non corrispondente alle indicazioni dei piani. Soprattutto si segnala la assoluta necessità di coinvolgere a fianco delle iniziative pubbliche, degli investimenti che lo Stato profonde nel Belice, le iniziative private, perché su queste si potrà poggiare in definitiva uno sviluppo economico del Belice alternativo rispetto ad altre zone depresse; se al meccanismo della ricostruzione non succederà un meccanismo economico in grado di assumerne l’eredità in termini di manodopera, ci si potrà trovare davanti ad un ulteriore deterioramento dell’economia locale con contraccolpi ben più complessi e difficili di quelli susseguenti ad una annata di cattivo raccolto. Queste ripetute cautele ed avvertimenti che i programmatori avanzavano quasi per scongiurare un rischio prevedibile, sembrano ora diventare profezia nei confronti di una realtà che sempre più assomiglia ai pericoli segnalati. Il business della ricostruzione era però già iniziato, interessi privati e di corporazione, miopia politica e malafede si mischiano in un circolo vizioso di cui, paradossalmente ci si rende conto immediatamente; ciononostante nessuno agisce di conseguenza. È interessante, a questo proposito il commento di Paola Dotto: "(…)All'indomani del terremoto le demolizioni, pagate pieno per vuoto risultavano senza dubbio più remunerative e più veloci delle opere di consolidamento o adeguamento sismico, anche nel caso di edifici monumentali o di centri storici di particolare pregio: quello che il sisma aveva risparmiato furono le ruspe ad abbattere, in fretta e non sempre per necessità. (…)La circostanza tragica del terremoto offre all'urbanistica ufficiale degli anni '70 l'occasione di cambiare l'assetto di una porzione del territorio in senso moderno e senza la presenza ingombrante di un "passato". L'urbanistica dei modelli vive nell'illusione totalizzante che la pianificazione, da sola, sia in grado di produrre nuovi modi di vita (e migliori condizioni socio-economiche per le popolazioni) cambiando i modi dell'abitare. Perdura l'idea che il terremoto - scardinato l'ordine esistente - lasci un assetto sociale e fisico completamente diverso da quello precedente le scosse: su questa convinzione prendono corpo le proposte di ridisegno territoriale dell'ISES, al fine di innescare lo sviluppo economico in aree fino ad allora marginali. (…)Oggi che terremoti più recenti hanno colpito altre parti del nostro Paese, la strada della salvaguardia e del restauro è già spianata, ma sarebbe semplicistico imputare le demolizioni del Belice a una carenza di cultura o di informazione… sarei tentata di parlare piuttosto di "falsa coscienza", se non conoscessi il pericolo delle facili generalizzazioni. Sussistono tuttavia dati di fatto inconfutabili: all'epoca del terremoto del Belice due Carte del Restauro erano già state scritte (Carta di Atene, 1931 e Carta di Venezia, 1964), di entrambe non si tenne conto e fu una precisa volontà politica a scegliere in tal senso. Il dato risulta particolarmente emblematico: a fronte delle ingenti risorse destinate alle infrastrutture e alla realizzazione di nuovi quartieri o ricostruzioni urbane, quasi nulla venne speso nella valorizzazione dei beni culturali degli antichi centri o di ciò che ne restava."


In una prima proposta redatta dall’I.S.E.S. veniva avanzata l’ipotesi di raggruppare gli abitanti di diversi comuni, Ghibellina, Santa Ninfa, Salaparuta e Poggioreale in un unico insediamento, in una conurbazione che da Santa Ninfa si estendeva fino alla località di Rampinzeri. L’ipotesi fu contrastata dalla popolazione e la conurbazione infine si ruppe in quattro insediamenti distinti: uno vicino al vecchio nucleo, Santa Ninfa; altri a breve distanza, Salaparuta e Poggioreale; l’ultimo, Gibellina, a quasi 20 chilometri dall’antico paese. Tra i due nuclei, quello vecchio e quello nuovo, sono collocate solitamente le baraccopoli; si è venuto così a creare una situazione per cui ogni comune tiene in questo periodo in vita ed abitate tre parti diverse, spesso a distanza di alcuni chilometri tra loro.Infatti nella ricostruzione non si è pensato di utilizzare in modo organico i tre insediamenti necessari nella fase transitoria e destinati a diventare due, o meglio uno solo nella fase definitiva. Il piano di trasferimento totale dell’abitato di Poggioreale è dimensionato per poco meno degli allora 3000 residenti e prevedeva la costruzione di 534 nuovi vani a totale carico dello Stato. L’area da espropriare, necessaria per la realizzazione complessiva del trasferimento, è di circa 107 mila mq., contro i 160 mila del vecchio centro storico ed è posta in vicinanza dell’asse Palermo – Sciacca (terminato circa trentenni dopo) su di un pendio prossimo al fondovalle in località Mandra di Mezzo. Tale località fu prescelta a seguito di perizia geologica, in quanto non fu possibile reperire aree geologicamente idonee in prossimità degli abitanti esistenti. Inoltre furono avanzate riserva di natura geologica anche sull’idoneità delle località stesse, nelle quali pertanto è stato necessario predisporre una serie di difese geologiche, di ricostruzione dell’ambiente e di rimboschimento, prima dell’attuazione del trasferimento.


La planimetria della città ha un disegno complesso, incentrato su tre grossi nuclei circolari, a cui sono tangenti gli assi delle attrezzature pubbliche. Gli spazi intermedi sono saldati da stecche residenziali ad andamento regolare e ripetitivo. Entrando in città attraverso una strada in sensibile pendenza, si giunge al primo nucleo residenziale nel cui centro sorge la nuova scuola media. Si individua, continuando a salire, la struttura dell’asse di servizio, con la scuola materna, l’asilo nido e un secondo complesso scolastico. Il centro civico, sociale e commerciale, parzialmente realizzato, identifica il centro della nuova città. Componenti essenziali del centro sono: il Municipio, forato da portici e terrazze; il centro sociale, con piazza coperta; il mercato; la piazza realizzata dall’architetto Paolo Portoghesi; il teatro comunale, ancora in fase di realizzazione e la Chiesa del santo Patrono, con il Sagrato, realizzata da Franco Purini e Laura Thermes. Si può da qui raggiungere la sommità dell’abitato sempre oltrepassando schiere di abitazioni destinate alla residenza. Una piazza circolare identifica la quota più alta; essa è attraversata da un viadotto pedonale in cemento a vista. Ai lati della piazza sorgono il centro amministrativo ed alcune residenze.


Dalla relazione di progetto si legge: "i componenti essenziali del centro sono il municipio, il centro sociale, e il mercato…Il centro sociale ha il suo fulcro in una piazza coperta destinata alla sosta, agli incontri alle assemblee. Il mercato non è altro che una grande terrazza coperta che da un lato si adagia sul terreno e dall’altro si affaccia sulla piazza del centro sociale. Il volume del municipio è disarticolato in modo da renderne chiaramente leggibili le destinazioni interne, ed è forato da portici e terrazze dai quali si accede agli uffici e che mettono in collegamento le zone pedonali con quelle veicolari. Infine allo scopo di vitalizzare il centro si è ritenuto opportuno introdurvi un certo numero di alloggi che qualora lo consenta il meccanismo di assegnazione, potranno essere attribuiti ai gestori dei negozi e a coloro che troveranno lavoro all’interno del Centro stesso". Ecco come si presentano oggi queste strutture: vuote, in disarmo, veri e propri spazi sociofughi! D’altra parte non sono mancati tentativi di "correzione": soprattutto negli anni Novanta, Poggioreale è stata oggetto di studio da parte di due noti architetti italiani: Paolo Portoghesi e Franco Purini. Portoghesi affronta il difficile tema della progettazione della nuova Piazza Elimo; scrive: "nasce con l’obbiettivo di riparare ai guasti di una città fondata dopo il terremoto, secondo modelli di composizione geometrica inattendibili, calata sul territorio senza coinvolgere né gli abitanti né i luoghi, mentre si poteva recuperare, almeno in parte, il centro abbandonato. Le prime ipotesi si sviluppano studiando gli elementi architettonici presenti nel vecchio centro, ma trattandosi di un intervento in una zona già edificata si decide di stabilire una connessione naturale con le preesistenze e di dura opposizione per quanto riguarda il linguaggio.(…) nella Sicilia moderna sono scomparsi i porticati, non per le condizioni climatiche, che li potrebbero rendere appetibili, ma per una esclusione ideologica perpetuata per secoli. Riproponendo il portico si cerca di ricreare un luogo adatto al passeggio, dove si affacciano alcune funzioni caratteristiche della piazza siciliana, che resta il luogo di identificazione della collettività". Purtroppo il risultato non è quello auspicato dal progettista: benché citata nelle più note riviste di architettura nazionali e non, la nuova piazza si presenta desolata, i porticati privi di un reale utilizzo, i locali destinati ad attività artigianali chiusi. Non ha avuto miglior sorte nemmeno Franco Purini che, con la collaborazione di Laura Thermes, ha realizzato la nuova chiesa dedicata al Santo Patrono S. Antonio da Padova e la stazione degli autobus.
La Valle del Belice sembra il risultato di una "stratificazione istantanea" di più idee di città che convivono, l'una accanto all'altra, l'una sull'altra, l'una nell'altra: apparendo e sottraendosi allo sguardo, l'una all'altra sconosciuta o irriconoscente.Negli spazi di relazione della città storica (tradizionalmente riconoscibili nel sistema strada/vicolo/cortile/piazza), "il limite del privato coincide sempre con il limite del pubblico e le regole dello spazio individuale fanno i conti con quelle dello spazio collettivo: strada e casa costituiscono così un binomio inscindibile". Negli spazi di relazione della città ricostruita vive una "interpretazione distorta" del modello della città giardino, che disconosce la cultura urbana e la tradizione abitativa della valle nell'intento di costruire, con le nuove case, nuovi modi di vivere, nuove condizioni di sviluppo, nuove opportunità. Così, all'indomani del sisma, la valle del Belice appare il "luogo mitico" dove tutto è accaduto, o potrebbe accadere, dove paesi arrampicati sulle montagne vengono portati a valle, dove le infrastrutture sorgono sul territorio ben prima delle case, dove l'arretratezza contiene il suo doppio: una ricchezza economica e uno sviluppo sociale possibile, a patto di lasciarsi alle spalle le abitazioni pericolanti e cambiare strada, vita, identità e cultura. "Il piano imposto dal centro, soprattutto astratto dal contesto in cui avrebbe dovuto realizzarsi, portatore di un disegno modernista rigido e in sé concluso come quello per il Belice, finì invece per creare due ricostruzioni parallele, quella sociale ed economica legata all'agricoltura e alla viticoltura, da una parte, quella delle grandi opere (talvolta incompiute) dall'altra". La dicotomia tra quanto è stato eseguito dei piani e le aspettative della comunità civile è probabilmente una delle cause della "crisi" delle città ricostruite, città oggi prive di ogni radicata identità urbana e culturale. Oggi che la ricostruzione è stata quasi totalmente completata, le città si stanno svuotando, poiché i giovani, non trovando più posti di lavoro nel mercato dell’edilizia, emigrano in altre regioni italiane, se non in altri Stati, svuotando così le città di un enorme potenziale di forza lavoro.

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venerdì 9 maggio 2008

Ricordando Aldo Moro e Peppino Impastato




Oggi si celebra la Giornata della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, nell’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro. Tale provvedimento, caldeggiato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e approvato in modo pressoché unanime dal precedente Parlamento, ha tra i suoi obiettivi quello di correggere lo squilibrio esistente tra l’esposizione mediatica degli ex terroristi e la coltre di silenzio che, fino a poco tempo fa, avvolgeva il ricordo delle vittime e il quotidiano vissuto dei parenti, troppo spesso abbandonati dalla comunità civile e dalle istituzioni. Per ricucire questo strappo si è avvertita l’esigenza di trasformare quel dolore privato in un rito pubblico, un passo obbligato se si vuole avviare una riflessione critica sugli anni del terrorismo, come da più parti auspicato.

Contro questa tendenza, tempo fa, si è levata la voce dell’ex brigatista Adriana Faranda: «Certe volte ho la tentazione di andarmene e di lasciare l’Italia. Perché io dovrei stare zitta? Mi si vuole negare la possibilità di aprirmi agli altri e comunicare cosa passa nel mio animo». Proveremo a spiegarglielo pubblicamente perché questo è lo scivoloso terreno da lei scelto per elevare la sua protesta.

Un anno prima del suo ingresso nelle Br, la Faranda scriveva al marito: «Voglio soltanto uno con i soldi che mi riempia di bei vestiti, di pellicce, di parrucchieri e affanculo la lotta di classe. Lottate, lottate che manco vi reggete in piedi Credo che morirò di noia ». Anche con simili argomenti la figlia di un’agiata famiglia borghese avrebbe continuato, ancora per qualche mese, a ballonzolare sul filo che separa gli apocalittici dagli integrati prima di scegliere la strada della lotta armata, «Nell’anno della tigre», come avrebbe raccontato in un libro scritto da un’altra vita. A quale prezzo, però. Nei riguardi di se stessa, come donna e giovane madre, ma soprattutto nei confronti della collettività, per la lacerazione inflitta a tante vite e al tessuto civile del nostro paese. Si pensi solo al direttore del Tg1 Emilio Rossi, gambizzato il 3 giugno 1977. Di quel commando faceva parte anche la Faranda, una volta risolti i dubbi che l’avevano indotta a esitare tra la scelta di rientrare nella solida esistenza borghese dei suoi genitori e l’opzione di bruciarsi la vita stuprando in serie quella degli altri, perché «tutto il resto è noia, no, non ho detto gioia, maledetta noia», come Franco Califano cantava proprio in quel furibondo 1977. Come «Il volo della farfalla» avrebbe raccontato mille anni dopo in un altro libro, con il narcisismo tipico dei redenti, alla ricerca di una platea che periodicamente rinnovi la cerimonia catartica dell’espiazione e del perdono.

Se oggi clicchiamo su Internet il suo nome, appare l’immagine della copertina di quel libro: i capelli mossi dal vento, gli occhiali neri, una sigaretta che pende dalle labbra carnose. E fino a pochi mesi fa si contemplava la foto di una cinquantenne ancora piacente, in posa tra svolazzanti farfalle, che promuoveva lo spettacolo teatrale tratto dal volume e occhieggiava al suo osservatore virtuale alla ricerca di una qualche complicità che il tempo non aveva scalfito. Chissà se fra gli spettatori di quella pièce ci sono stati anche «Maria R., Aldo F. e Renato di S.», fermati a Roma il 2 aprile 1978 perché leggevano con un megafono volantini inneggianti alle Br? Forse che quegli adolescenti erano diabolici terroristi o loro temibili fiancheggiatori? Certo che no, ma oggi, magari vestiti nei loro rispettabili abiti di professionisti, quando applaudono la redenta Faranda approfittano di quell’oscurità scenica per redimere anche il loro passato rimosso, quella contiguità ormai ispessita dall’ipocrisia e dalla furbizia degli anni, abitata da sorrisini accondiscendenti, conformismi generazionali e troppe parole non dette. E così la Faranda, di vacuità in vacuità, di indulgenza in indulgenza, svolazza per l’Italia, un palcoscenico editoriale, teatrale e televisivo dopo l’altro: certo soddisfatta di essere oggi una scrittrice benevolmente recensita dal magistrato che allora la processò; addirittura felice che il «Kossiga» di ieri la definisca pubblicamente sua amica, entrambi reduci e dissociati dal proprio opposto passato; persino stupita, si immagina, di ricevere nel 2006 un premio letterario per il suo libro, patrocinato anche dal ministero dei Beni Culturali.

E il problema - si tranquillizzi Erri De Luca - non è di voler condannare al silenzio perpetuo i terroristi di ieri, come se fossimo davanti a un tribunale inquisitoriale che pretende di negare loro in eterno il diritto alla parola temendone l’indicibile e imperdonabile antagonismo politico. No, il problema è di invitarli a una dimensione privata della riflessione che esuli da un nuovo protagonismo pubblico, tanto ricercato e così esibito. E’ il narcisismo del redento a essere insopportabile perché troppo da vicino ricorda il superomismo del carnefice; bisogna saper distinguere la reintegrazione dal pulpito. Soprattutto perché l’unico contributo che ancora si attende da questa generazione di terroristi, al di fuori di ogni logica penale, è un contributo di verità storica, nonostante abbiano quasi tutti goduto di sostanziali benefici giudiziari.

Ma il problema in realtà è più complesso. Di questa esibizione mediatica siamo colpevoli anche noi che costruiamo intorno ad essa un irresponsabile mercato delle opinioni e delle emozioni in cui si alternano «vite straordinarie», «storie maledette» e «misteri italiani». E siamo irresponsabili due volte: anzitutto, rispetto al recente passato di questo paese poiché non c’è nulla di più alieno da un giudizio critico e consapevole che una storia popolata di supereroi, di mostri diabolici e di trame oscure. Ma siamo irresponsabili anche perché quel confuso e malizioso mulinare di abbracci senili e titolazioni ammiccanti invia un messaggio subdolo al ventenne globalizzato di oggi, dalla scarsa e confusa memoria: l’idea che in un regime democratico praticare l’omicidio o lo storpiamento politico non solo è fattibile, ma consente di restare sempre in prima fila nel teatro della vita che coincide con quello della comunicazione. Un tempo feroci come tigri e oggi leggiadri come farfalle, fino alla prossima volta.

E allora, silenzio, please. Se solo fosse possibile, vorremmo in questa giornata ascoltare ancora il ticchettio della macchina da scrivere di Carlo Casalegno: la sua rubrica, su questo giornale, si intitolava «Il nostro Stato». Il suo e quello di Walter Tobagi, di Fulvio Croce, di Emilio Alessandrini e di tutti gli altri. Il nostro Stato, la sua parte migliore, mite, tenace, seria, riformatrice, spazzata via, un lungo corteo di morti che, in buona parte, ancora chiedono verità e giustizia e tutti esigono di essere ricordati. [MIGUEL GOTOR "La Stampa"]

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lunedì 5 maggio 2008

Scegliersi


Scrivo questo post offline, domenica sera, dopo essere rientrato a Palermo nel tardo pomeriggio e avere sentito telefonicamente gli sposi e un amico. Il giudizio unanime è che le ultime 48 ore sono state, per tutti, tra le più belle mai vissute. Non vuole essere la solita retorica, ci siamo divertiti davvero; non so cosa ha contribuito a scatenare questa particolare alchimia: il fatto che con alcuni amici non ci si vedeva da tempo, il volere sinceramente gioire con chi di noi avrebbe vissuto uno dei giorni più importanti della sua vita, il connaturato fancazzismo che ci contraddistingue o forse l’alcol che è scorso a fiumi. Avrei aneddoti e battute con cui poter riempire non 10 post, ma un intero blog: l'organizzazione della serenata con il gruppo folcloristico a seguito; l'aver fatto ubriacare l'intera famiglia della sposa, compresa la novantaquattrenne nonna che rischiava seriamente di restarci secca; la contradanza ballata in mezzo alla strada con i vigili urbani; gli striscioni montati su un cavalcavia con i cani randagi che cervano di sbranarci; l'ingresso in ritardo in chiesa causa aperitivo nel bar di fronte (unico caso a memoria in cui lo sposo va alla ricera dei testimoni e non viceversa...); l'arciprete che ci fa i gestacci per invitarci alla quiete durante la messa; le battute sui vestiti degli invitati ("Sembra sceso da Star Treck", "ha la gonna con le sgommate disegnate sopra..."); il viaggio in pulmino verso la lontanissima, ma splendida villa scelta per il trasferimento; lo scherzo per la notte degli sposi (5 sveglie nascostissime nella stanza dell'albergo che avrebbero suonato ininterrottamente per tutta la notte, annunciando l'ora); la pantagruelica, ma raffinatissima cena; la cameriera addetta a riempirci i bicchieri di vino che ormai stazionava divertita dietro di noi; la furibonda cantante sulla voce della quale abbiamo sempre cantato per tutta la serata; il "trenino conga" creato strappando le persone dai tavoli; la sposa "invitata" a cantare davanti a tutti, pena bagno in piscina e molti altri che per ora non ricordo. Due cose però mi hanno colpito su tutto: gli sposi e i miei vecchi amici.

I primi, perchè raramente mi è capitato di vedere una coppia, così affiatata e viva, qualcosa che va al di là del semplice amore. La loro non è una storia che "doveva" arrivare al matrimonio, non è il risultato di decenni di fidanzamento che "devono" terminare o in un matrimonio o nella rottura: conosciutisi, pochissimi anni fa, fuori dal loro ambiente, si sono innamorati, hanno superato i rispettivi difetti e dopo un po' hanno deciso di condividere la propria vita insieme. Non è una coppia idilliaca, litigano anche loro, ma sono una coppia vera: alla base c'è amore, stima, rispetto e affetto oltre che passione. Insomma, si sono trovati e si sono scelti.

Per quanto riguarda i miei amici, beh è strano: ci vediamo si e no d'estate, ma è come se li avessi lasciati un momento prima. Riprendiamo la conversazione come se fosse un dialogo interrotto. Ho già scritto sul rapporto che mi lega agli amici, ma in questi giorni credo di aver messo a fuoco cosa li contraddistingue e in che maniera li scelga o meglio ne diventi amica. Ci sono persone che, con chiunque parlino sono accettate, gradite e, in qualsiasi ambiente entrino, riescono a creare una atmosfera gradevole, di simpatia, di comprensione. Anche se l’interlocutore ha un atteggiamento altero o ostile non raccolgono la sfida, lo ascoltano con attenzione e colgono sempre nelle sue parole qualcosa di positivo, qualcosa con cui sono d’accordo. Se l’altro fa affermazioni contrarie ai loro convincimenti cercano di ignorarle. Così riescono ad instaurare un dialogo amichevole, ma sono persone che vogliono piacere, che vogliono esser amate, evitano i conflitti e per non farsi nemici sono sempre pronte ad un compromesso. Sono apprezzate, stimate, ma anche indifese di fronte a gente astuta e spregiudicata che approfitta della loro cedevolezza per ottenere impegni e promesse di cui poi abuserà. Poi ci sono persone che hanno forti convincimenti a cui non sono assolutamente disposte a rinunciare e che affermano e difendono con decisione. A diffidenza delle prime sono diffidenti. Quando incontrano qualcuno che non conoscono, anche se sono gentili e sorridenti, lo osservano con cura, lo studiano, lo valutano per capire se hanno le loro stesse idee oppure no. Gradevoli coi primi, si irrigidiscono con i secondi e si preparano allo scontro, oppure li ignorano. Quando entrano in una sala piena di gente nuova sono prudenti, parlano con circospezione poi, di solito, si fermano a chiacchierare solo con le persone che conoscono o di cui sono sicure o spesso che non le contraddicono. Sempre pronte a lamentarsi, pensano poco al benessere comune, quanto al proprio A causa di questo modo di comportarsi spesso vengono considerate altezzose e superbe o nel peggiore dei casi isteriche. Vi sono infine delle persone che come le prime riescono sempre a stabilire una relazione amichevole ed a creare una atmosfera piacevole non sono né arrendevoli né accondiscendenti. Evitano le provocazioni, evitano le discussioni accese, evitano lo scontro ma quando è necessario sono pronte ad affermare con estrema chiarezza e precisione il loro punto di vista. Sicure della propria cultura e della propria abilità, dopo aver ascoltato con rispetto e attenzione l’ avversario, colgono sempre un punto debole della sua argomentazione e gli rovesciano la situazione fra le mani. Con questa gente hai l’impressione di venire sempre capito, e, nello stesso tempo che puoi sempre imparare qualcosa. Ecco i miei amici o coloro che io considero tali, vecchi e nuovi, sono così.

Postilla: gli sposi fanno sapere ("Siete dei b#st#rdi malati, non abbiamo chiuso occhio!") che lo scherzo delle sveglie (le "struruserie" del post precedente) ha funzionato, l'idea di nasconderne un paio nel cassone dell'avvolgibile è stata semplicemente diabolica!

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domenica 4 maggio 2008

Usi alternativi di una sveglia


Mai bevuto tanto, mai riso tanto, mai mangiato meglio, mai divertito tanto in vita mia...


domani, quando avrò ripreso conoscenza vi racconto, ma per capire...

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sabato 3 maggio 2008

Serenata metropolitana




E fu il delirio...

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venerdì 2 maggio 2008

Tranquillo


Domani si sposa una dei miei più cari amici; mentre ero a pranzo fuori, ieri, mi arriva una telefonata
amico: "Nicò, ma sei a Palermo? Volevamo fare una cena stasera: solo noi quattro; io, tu, amico sposo e amico testimone. Non ci vediamo mai..."
io: "Accidenti sono fuori casa e non saprei come venire; vabbè fate senza di me ci vediamo venerdì e poi al matrimonio..."
amico: "Ma no! Non è lo stesso: ti vengo a prendere, stai tranquillo!"
io: "Ma smettila, domani devo essere qui"
amico: "Tranquillo!! Ti riaccompagno a qualunque ora. Stai tranquillo..."
io: "Sono l'immagine della tranquillità..."

1 minuto dopo
amico: "Tutto rimandato: amico sposo non può; dice che sta organizzando una cosa e che sei coinvolto, anzi lo siamo tutti, ma non so cosa"
io: "Coinvolto?"
amico : "Tranquillo, le solite cose di amico sposo, lo sai com'è... lo conosci da trent'anni..."
io: "Appunto! Comunque..."

20 minuti dopo
amico sposo: "Dove sei?"
io: "A Palermo"
amico sposo: "Quando torni?"
io: "Non lo so"
amico sposo: "Ma ci sei al matrimonio?"
io: "Ovvio, ma non so esattamente quando torno a casa..."
amico sposo: "Come stai messo a canto?"
io: "Sotto la doccia vado da Dio, perchè?"
amico sposo: "Tranquillo, lo so io"
io: "Tranquillo..."

altri 10 minuti dopo
amico sposo: "Devi essere assolutamente qui domani sera entro le 21."
io: "Perchè?"
amico sposo: "Tranquillo: dobbiamo andare a casa di amica sposa, poi ti spiego meglio"
io: "Ma a fare che?"
amico sposo: "Tranquillo, ci divertiamo!"
io: "Sono talmente tranquillo, che parlo pure con i fiori, guarda..."

1 minuto dopo
amico: "Sei tranquillo?"
io: "Sempre di meno... che ha pensato stavolta?"
amico: "Domani alle 23 andiamo a città vicina, sotto casa di amica sposa a fare una serenata..."
io: "Scherzi?"
amico: "Secondo te?"
io: "Dai, è divertente! Si usano ancora ste cose?"
amico: "Ehm non è finita: saremo noi quattro più un complessino... dovremo cantare..."
io: "Noi? Canterà il complesso, al massimo amico sposo: noi faremo da coro..."
amico: "No, no... canteremo pure noi: conosci 'Nicuzza mia'? C'è anche una versione dei Tinturia..."
io: "Ah..."
amico: "Tranquillo, mica è Sanremo..."
io: "Ormai più che tranquillo, sono Zen"

la sera, chiedo in giro e recupero un mp3 della canzone e comincio a memorizzarla
amico: "Che fai?"
io: "Ascoltavo Nicuzza dei Tinturia: la sto 'studiando' "
amico: "Faremo una figura di m**d@, ci saranno tutti i vicini, i parenti..."
io: "Ma no! Ci divertiremo: tranquillo!"
amico: "Ma che tranquillo e tranquillo... tranquillo dice lui... odio le persone che dicono tranquillo, ne segue sempre una fregatura!"
io: "..."

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