Ricordando Aldo Moro e Peppino Impastato
Oggi si celebra la Giornata della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, nell’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro. Tale provvedimento, caldeggiato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e approvato in modo pressoché unanime dal precedente Parlamento, ha tra i suoi obiettivi quello di correggere lo squilibrio esistente tra l’esposizione mediatica degli ex terroristi e la coltre di silenzio che, fino a poco tempo fa, avvolgeva il ricordo delle vittime e il quotidiano vissuto dei parenti, troppo spesso abbandonati dalla comunità civile e dalle istituzioni. Per ricucire questo strappo si è avvertita l’esigenza di trasformare quel dolore privato in un rito pubblico, un passo obbligato se si vuole avviare una riflessione critica sugli anni del terrorismo, come da più parti auspicato.
Contro questa tendenza, tempo fa, si è levata la voce dell’ex brigatista Adriana Faranda: «Certe volte ho la tentazione di andarmene e di lasciare l’Italia. Perché io dovrei stare zitta? Mi si vuole negare la possibilità di aprirmi agli altri e comunicare cosa passa nel mio animo». Proveremo a spiegarglielo pubblicamente perché questo è lo scivoloso terreno da lei scelto per elevare la sua protesta.
Un anno prima del suo ingresso nelle Br, la Faranda scriveva al marito: «Voglio soltanto uno con i soldi che mi riempia di bei vestiti, di pellicce, di parrucchieri e affanculo la lotta di classe. Lottate, lottate che manco vi reggete in piedi Credo che morirò di noia ». Anche con simili argomenti la figlia di un’agiata famiglia borghese avrebbe continuato, ancora per qualche mese, a ballonzolare sul filo che separa gli apocalittici dagli integrati prima di scegliere la strada della lotta armata, «Nell’anno della tigre», come avrebbe raccontato in un libro scritto da un’altra vita. A quale prezzo, però. Nei riguardi di se stessa, come donna e giovane madre, ma soprattutto nei confronti della collettività, per la lacerazione inflitta a tante vite e al tessuto civile del nostro paese. Si pensi solo al direttore del Tg1 Emilio Rossi, gambizzato il 3 giugno 1977. Di quel commando faceva parte anche la Faranda, una volta risolti i dubbi che l’avevano indotta a esitare tra la scelta di rientrare nella solida esistenza borghese dei suoi genitori e l’opzione di bruciarsi la vita stuprando in serie quella degli altri, perché «tutto il resto è noia, no, non ho detto gioia, maledetta noia», come Franco Califano cantava proprio in quel furibondo 1977. Come «Il volo della farfalla» avrebbe raccontato mille anni dopo in un altro libro, con il narcisismo tipico dei redenti, alla ricerca di una platea che periodicamente rinnovi la cerimonia catartica dell’espiazione e del perdono.
Se oggi clicchiamo su Internet il suo nome, appare l’immagine della copertina di quel libro: i capelli mossi dal vento, gli occhiali neri, una sigaretta che pende dalle labbra carnose. E fino a pochi mesi fa si contemplava la foto di una cinquantenne ancora piacente, in posa tra svolazzanti farfalle, che promuoveva lo spettacolo teatrale tratto dal volume e occhieggiava al suo osservatore virtuale alla ricerca di una qualche complicità che il tempo non aveva scalfito. Chissà se fra gli spettatori di quella pièce ci sono stati anche «Maria R., Aldo F. e Renato di S.», fermati a Roma il 2 aprile 1978 perché leggevano con un megafono volantini inneggianti alle Br? Forse che quegli adolescenti erano diabolici terroristi o loro temibili fiancheggiatori? Certo che no, ma oggi, magari vestiti nei loro rispettabili abiti di professionisti, quando applaudono la redenta Faranda approfittano di quell’oscurità scenica per redimere anche il loro passato rimosso, quella contiguità ormai ispessita dall’ipocrisia e dalla furbizia degli anni, abitata da sorrisini accondiscendenti, conformismi generazionali e troppe parole non dette. E così la Faranda, di vacuità in vacuità, di indulgenza in indulgenza, svolazza per l’Italia, un palcoscenico editoriale, teatrale e televisivo dopo l’altro: certo soddisfatta di essere oggi una scrittrice benevolmente recensita dal magistrato che allora la processò; addirittura felice che il «Kossiga» di ieri la definisca pubblicamente sua amica, entrambi reduci e dissociati dal proprio opposto passato; persino stupita, si immagina, di ricevere nel 2006 un premio letterario per il suo libro, patrocinato anche dal ministero dei Beni Culturali.
E il problema - si tranquillizzi Erri De Luca - non è di voler condannare al silenzio perpetuo i terroristi di ieri, come se fossimo davanti a un tribunale inquisitoriale che pretende di negare loro in eterno il diritto alla parola temendone l’indicibile e imperdonabile antagonismo politico. No, il problema è di invitarli a una dimensione privata della riflessione che esuli da un nuovo protagonismo pubblico, tanto ricercato e così esibito. E’ il narcisismo del redento a essere insopportabile perché troppo da vicino ricorda il superomismo del carnefice; bisogna saper distinguere la reintegrazione dal pulpito. Soprattutto perché l’unico contributo che ancora si attende da questa generazione di terroristi, al di fuori di ogni logica penale, è un contributo di verità storica, nonostante abbiano quasi tutti goduto di sostanziali benefici giudiziari.
Ma il problema in realtà è più complesso. Di questa esibizione mediatica siamo colpevoli anche noi che costruiamo intorno ad essa un irresponsabile mercato delle opinioni e delle emozioni in cui si alternano «vite straordinarie», «storie maledette» e «misteri italiani». E siamo irresponsabili due volte: anzitutto, rispetto al recente passato di questo paese poiché non c’è nulla di più alieno da un giudizio critico e consapevole che una storia popolata di supereroi, di mostri diabolici e di trame oscure. Ma siamo irresponsabili anche perché quel confuso e malizioso mulinare di abbracci senili e titolazioni ammiccanti invia un messaggio subdolo al ventenne globalizzato di oggi, dalla scarsa e confusa memoria: l’idea che in un regime democratico praticare l’omicidio o lo storpiamento politico non solo è fattibile, ma consente di restare sempre in prima fila nel teatro della vita che coincide con quello della comunicazione. Un tempo feroci come tigri e oggi leggiadri come farfalle, fino alla prossima volta.
E allora, silenzio, please. Se solo fosse possibile, vorremmo in questa giornata ascoltare ancora il ticchettio della macchina da scrivere di Carlo Casalegno: la sua rubrica, su questo giornale, si intitolava «Il nostro Stato». Il suo e quello di Walter Tobagi, di Fulvio Croce, di Emilio Alessandrini e di tutti gli altri. Il nostro Stato, la sua parte migliore, mite, tenace, seria, riformatrice, spazzata via, un lungo corteo di morti che, in buona parte, ancora chiedono verità e giustizia e tutti esigono di essere ricordati. [MIGUEL GOTOR "La Stampa"]
Meno male che ogni tanto qualcuno ragiona!
RispondiEliminaBAXX
quoto t'alon al 100%!!!!:-|
RispondiEliminaCiao Nicola
Maria