Scrive Mario Pirani su Repubblica:
La diatriba toponomastica a dieci anni dalla morte di Craxi andrebbe messa da parte. Svilisce un dibattito ineludibile perché grava ancora sulle nostre attuali vicende e seguiterà a pesare fino a quando le reciproche accuse non saranno metabolizzate.
Basterebbe por mente al fatto, ai limiti di un paradosso mai davvero esplorato, che l´ultima scissione all´interno della sinistra, a partire da quella del 1921, è stata quella che ha visto una grossa aliquota di dirigenti e di elettorato socialista passare in blocco nelle file di Forza Italia.
Per chi, come il sottoscritto, ha da sempre giudicato del tutto stravolgente e inaccettabile l´entrata nell´arena politica del padrone delle Tv, sarebbe fin troppo facile unirsi al coro e bollare la deriva socialista come l´esito di una propensione antropologica al "tradimento" di classe, ad una conversione al berlusconismo, ad un "mutamento genetico" derivante per naturale ascendenza dal craxismo.
E chiuderla ancora una volta qui. Senza mai fare i conti con l´altrettanto naturale e permanente antisocialismo che i comunisti e i postcomunisti, si portano dentro la pancia da sempre, con zoologica continuità: da quando disprezzavano Turati e appellavano Pietro Nenni di "social-fascista", fino alle recenti trasformazioni (Cosa uno e due, Pds e Pd) che ha visto svalutato e irriso ogni apporto socialista restato fedele alla sinistra, impersonato, per ricordare qualche nome, da Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo, da Rino Formica e Giorgio Benvenuto, fino ai sindacalisti della Uil che aderirono al Pds, e così via.
Sprezzati e messi da canto per una ragione di fondo: la permanenza di una scelta che respingeva il nome stesso di "socialismo", (passaporto per l´Europa poi, smarrito per strada) ma impronunciabile per denominare il "nuovo" partito in Italia. La spiegazione esiste: la scelta, da Berlinguer ad oggi, è rimasta sempre quella di privilegiare l´alleanza, fino alla fusione (!), con la sinistra cattolica e respingere l´unità con il socialismo democratico.
Questo ha portato ad un riformismo azzoppato, timoroso di ogni ostilità sulla sinistra, da quella di Di Pietro a quella della Fiom, e, soprattutto, lo ha amputato della sua indispensabile funzione a difesa del laicismo, nello Stato e nella società. Come non capire che anche tutto questo ha contribuito alla deriva di milioni di socialisti verso la sponda d´approdo berlusconiana?
La questione di Craxi s´intreccia con tutto ciò. Non ho spazio per approfondirla qui. Annoto solo: l´intuizione storica di una riconquista di uno spazio autonomo del Psi, succubo fino al 76 della preminenza comunista, avvalorata dal consociativismo berlingueriano con la sinistra dc, era una necessità per l´Italia. Anche la dilatazione del deficit pubblico fu spinta dal consociativismo e dalla invadenza sindacale che ne derivava.
Senza autonomia e peso autonomo del Psi nel governo di centro-sinistra, non ci sarebbe stata la svolta storica della scala mobile e l´inversione di una inflazione devastante, così come non ci sarebbe stata una scelta europeista epocale, quando Craxi, al Vertice di Milano dell´85 impose il voto a maggioranza contro la Thatcher per passare al Mercato unico; così come fu decisivo il suo intervento per permettere contro il Pci, l´installazione degli euromissili in Italia a fronte di quelli installati da Breznev, puntati sull´Europa per ricattarla.
Per far questo occorreva un partito dotato anche di autonomia economica. Di qui la scelta rovinosa delle tangenti, gli arricchimenti, gli scandali nel clima di cinismo realpolitik inalberato dal Capo. Il giudizio, però, si è squilibrato da una parte sola: tutta la vita italiana era condizionata dai costi "impropri" della democrazia: la Dc imponeva tangenti pubbliche, il Pci riceveva i soldi prima dall´Urss e poi delle cooperative. Ma il marchio dell´immoralità è finito solo su Craxi. Il codardo insulto sfiorò persino i "miglioristi" del Pci, accusati di "filo-craxismo". Una ingiustizia storica che duole ancora.
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